Con il decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla legge 17 luglio 2020 n.77, è stato introdotto il cd “Ecobonus”, vale a dire la possibilità di detrarre dalle imposte il 110% delle spese sostenute dal 1° luglio
2020 al 31 dicembre 2021 per il rinnovamento energetico e per l’adeguamento sismico degli edifici.
Le nuove disposizioni si aggiungono a quelle già vigenti, che consentono di beneficiare di agevolazioni fiscali dal 50% all’85% per spese di recupero del patrimonio edilizio (cd. sismabonus) e di riqualificazione energetica degli edifici (cd. ecobonus).
Possono usufruire del superbonus gli interventi eseguiti su:
L’ecobonus 110% sarà valido anche per le seconde case ad eccezione di quelle di lusso (categorie catastali: A1 abitazioni signorili – A8 ville – A9 castelli), che anche se prima casa sono sempre escluse dal beneficio.
Gli interventi coperti dal bonus si distinguono in “interventi trainanti” che sono necessari ed indispensabili per ottenere il beneficio fiscale al 110%, ed “interventi trainati” che beneficiano della detrazione solo se compiuti in abbinamento ai primi.
Gli Interventi cd. “trainanti” sono quelli di:
Gli interventi cd. “trainati”, sono quelli di:
Per tali soggetti il Superbonus spetta anche per le spese sostenute dal 1° gennaio 2022 al 30 giugno 2022.
Possono beneficiare dell’agevolazione fiscale anche: i titolari di diritto reale di godimento (usufrutto, uso e abitazione), i nudi proprietari, i detentori con contratto di locazione o comodato regolarmente registrato, purché muniti del consenso all’esecuzione dei lavori da parte sia del proprietario che dei familiari del possessore o detentore. I titolari di reddito d’impresa o professionale rientrano tra i beneficiari nella sola ipotesi di partecipazione alle spese per interventi trainanti effettuati dal condominio sulle parti comuni.
La detrazione è riconosciuta nella misura del 110%, da ripartire tra gli aventi diritto in cinque quote annuali di pari importo. Per l’applicazione dell’aliquota corretta occorre fare riferimento alla data dell’effettivo pagamento (criterio di cassa) per le persone fisiche, gli esercenti arti e professioni e gli enti non commerciali e alla data di ultimazione della prestazione, indipendentemente dalla data dei pagamenti, per le imprese individuali, le società e gli enti commerciali (criterio di competenza).
Gli interventi di isolamento termico dovranno rispettare i requisiti previsti da un apposito decreto da emanarsi ad opera del Ministero dello sviluppo economico e comportare il miglioramento di almeno due classi energetiche e se l’edificio o l’unità familiare è già nella penultima (terzultima) classe, il conseguimento della classe energetica più alta. L’APE (attestato di prestazione energetica) rilasciato prima e dopo gli interventi attesterà il miglioramento energetico.
Il contribuente in luogo dell’utilizzo della detrazione in sede di dichiarazione dei redditi può optare per una delle due seguenti soluzioni alternative:
L’opzione può essere effettuata in relazione a ciascuno stato di avanzamento dei lavori che, non possono essere più di due per ciascun intervento complessivo, di cui il primo stato deve riferirsi ad almeno il 30% e il secondo ad almeno il 60% dell’intervento medesimo e deve essere comunicata in via telematica, anche tramite gli intermediari abilitati alla trasmissione delle dichiarazioni.
Per esercitare l’opzione, il contribuente deve acquisire il visto di conformità dei dati attestanti la sussistenza dei presupposti che danno diritto alla detrazione. I soggetti abilitati al rilascio del predetto visto sono coloro i quali sono incaricati della trasmissione telematica delle dichiarazioni (dottori commercialisti, ragionieri, periti commerciali e consulenti del lavoro) e i responsabili dell’assistenza fiscale dei CAF.
Tali soggetti verificheranno la presenza delle asseverazioni e delle attestazioni che certificano il rispetto dei requisiti tecnici necessari e la congruità delle spese sostenute.
Sia che si opti per lo sconto in fattura o per la cessione del credito, occorrerà richiedere:
La non veridicità delle dichiarazioni comporta la decadenza dal beneficio e una sanzione pecuniaria da € 2mila a 15mila per chi rilascia attestazioni o asseverazioni infedeli.
I soggetti responsabili delle attestazioni e asseverazioni, rilasceranno le predette attestazioni previo rilascio di una polizza assicurativa, con massimale adeguato al numero dei documenti rilasciati e agli importi degli interventi che ne sono oggetto, comunque non inferiore a 500mila euro.
Autrice Avv. Graziella Lapenta
Con la sentenza n. 75/2020 la Corte Costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 224-ter, comma 6, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (nuovo Codice della Strada), nella parte in cui prevede che il prefetto verifica la sussistenza delle condizioni di legge per l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo, anziché disporne la restituzione all’avente diritto, in caso di estinzione del reato di guida sotto l’influenza dell’alcool per esito positivo della messa alla prova”.
La questione, ritenuta fondata dalla Corte, traeva le mosse dalla notevole differenza di trattamento, in tema di confisca del veicolo, tra chi, accusato del reato di guida in stato di ebbrezza, chiedeva la sostituzione della pena detentiva e pecuniaria prevista dall’art. 186 C.d.S. con quella del Lavoro di Pubblica Utilità, “consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze” e chi, invece, davanti alla medesima contestazione, chiedeva la sospensione del processo con messa alla prova, la cui concessione è, ai sensi dell’art. 168-bis C.P., “subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità”.
Il ricorso dell’imputato al secondo istituto – tendenzialmente motivato dall’impossibilità di accedere al primo per i motivi ostativi citati dall’art. 186 C.d.S. (l’aver provocato un incidente stradale e/o l’aver già usufruito dei Lavori di Pubblica Utilità) – comporta(va) conseguenze maggiormente pregiudizievoli per lo stesso in merito all’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie della sospensione della patente e della confisca del veicolo.
Mentre, infatti, in caso di svolgimento positivo del Lavoro di Pubblica Utilità, il giudice dichiara estinto il reato, disponendo la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e la revoca della confisca del veicolo sequestrato, ai sensi dell’art. 168-ter C.P. l’esito positivo della messa alla prova, pur estinguendo anch’esso il reato per cui si procede, “non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie”.
Ai sensi del previgente testo dell’art. 224-ter C.d.S., in caso di estinzione del reato il potere di verifica in merito alla sussistenza o meno delle condizioni di legge per l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie passava, quindi, dal giudice penale al prefetto.
Con la sentenza in commento, il “Giudice delle Leggi” ha aderito alla prospettazione secondo cui appariva manifestamente irragionevole che, in caso di estinzione del reato per svolgimento positivo dei Lavori di Pubblica Utilità, il giudice dovesse obbligatoriamente revocare la confisca del veicolo mentre, viceversa, in caso di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, egli dovesse trasmettere gli atti al prefetto, affinché quest’ultimo disponesse la confisca in caso di sussistenza delle condizioni di legge.
In pratica, all’esito (positivo) di prestazioni analoghe ed a fronte della medesima conseguenza dell’estinzione del reato, potevano corrispondere esiti totalmente opposti in merito alla confisca del veicolo. Non solo ma, come rilevato dalla Corte, un eventuale provvedimento negativo (la confisca) conseguiva all’esito di “una misura più articolata ed impegnativa dell’altra”, ossia la messa alla prova.
Sebbene la Corte Costituzionale abbia limitato il proprio intervento ad un “microsistema” creato all’interno del Codice della Strada in merito al reato di guida in stato di ebbrezza, sottolineando espressamente la mancata interferenza con detto sistema della già citata disposizione dell’art. 168-ter C.P., secondo cui l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, è logico interrogarsi sulla coerenza e ragionevolezza del quadro normativo delineato dalla sentenza n. 75/2020.
Innanzitutto, la coerenza del “microsistema” dovrebbe portare ad analoga pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 224-ter, comma 6, C.d.S. in relazione al reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti, per il quale è altresì prevista, ai sensi del comma 8-bis dell’art. 187 C.d.S., la possibilità di chiedere la sostituzione delle pene con i Lavori di Pubblica Utilità (oltre che la possibilità di chiedere la messa alla prova).
Con il sistema delineato dalla Corte Costituzionale si avranno poi, sempre in tema di confisca del veicolo, conseguenze opposte all’esito delle messe alla prova richieste per i reati di guida sotto l’influenza dell’alcool (o, nel caso di nuova pronuncia di incostituzionalità, in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti) rispetto a quelle richieste per tutti gli altri reati (diversi da quelli previsti dal Codice della Strada) per la cui commissione è stato utilizzato un veicolo (fattispecie per la quale, ai sensi del nuovo comma dell’art. 213 C.d.S., “è sempre disposta la confisca del veicolo”).
Occorrerà pertanto attendere le eventuali future eccezioni di legittimità costituzionale delle norme relative alla sopravvivenza delle sanzioni amministrative accessorie all’estinzione dei reati per esito positivo della messa alla prova onde comprendere come la Corte Costituzionale saprà motivare la ragionevolezza o l’irragionevolezza dei differenti trattamenti riservati a coloro i quali accederanno a tale istituto.
Autore Avv. Federico Caporale
Stante il periodo emergenziale che l’Italia (ed il resto del mondo) sta attraversando, il Governo ha correttamente stabilito di fornire il proprio supporto economico ai cittadini che ne avessero bisogno e, soprattutto, alle aziende ed a tutti quegli enti il cui lavoro è stato bloccato ai fini di tutela della salute e che, per far fronte all’emergenza, hanno avuto la necessità di richiedere dei finanziamenti.
Tali aiuti prevedono, però, non la possibilità di richiedere finanziamenti agevolati direttamente allo Stato o agli Enti Pubblici ma, anzi, la possibilità di richiederli ad enti Privati con la sicurezza che, laddove si verificasse l’impossibilità di far fronte al pagamento delle rate, a quel punto intervenga lo Stato.
Sono, quindi, finanziamenti garantiti dallo Stato.
Come è ormai noto, una delle tipologie di finanziamento introdotte dal c.d. “Decreto Liquidità”, che risponde alle esigenze sopra descritte, è quella che ha ad oggetto i prestiti di un importo non superiore al 25% dell’ammontare dei ricavi del richiedente, così come risultanti dall’ultimo bilancio o dichiarazione fiscale, e comunque non superiore a 25.000,00 Euro, interamente garantiti dal Fondo di Garanzia per le PMI.
La richiesta del finanziamento in oggetto viene avanzata dal legale rappresentante dell’impresa o dal professionista / lavoratore autonomo che, oltre alla compilazione e sottoscrizione del modulo di richiesta, dovrà indicare i ricavi registrati nell’ultimo bilancio depositato o, in caso di costituzione del soggetto beneficiario successiva al 1 gennaio 2019, risultanti da altra documentazione, ivi compresa un’autocertificazione degli stessi.
Con il modulo di richiesta il soggetto richiedente dichiara altresì, tra le altre cose:
In questo caso non viene effettuata, ai fini della concessione della garanzia, la valutazione del merito del credito, anche se non sussiste in capo agli Istituti Bancari, che possono effettuare una propria istruttoria, un obbligo di concessione del finanziamento.
A livello sanzionatorio è stato previsto che la revoca totale o parziale dell’agevolazione comporterà il versamento al Fondo di Garanzia di un importo pari all’aiuto ottenuto, maggiorato delle eventuali e ulteriori sanzioni previste dall’art. 9 del D.Lgs n. 123/1998 (da due a quattro volte l’importo dell’intervento).
Occorre, però, interrogarsi sugli eventuali profili penali connessi alla condotta di colui il quale richieda ed ottenga il finanziamento in forza di dichiarazioni e documentazioni mendaci e/o false. Va da sé, infatti, che il rischio connesso alla richiesta di tali finanziamenti garantiti sia quello -da parte dei richiedenti- di dichiarare falsamente di avere i requisiti necessari per l’accesso alle erogazioni.
Le fattispecie che astrattamente potrebbero delinearsi, laddove tali condotte si pongano in essere, sono da una parte quella di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di cui all’art. 640 bis C.P.; dall’altra quella di cui all’art. 316 ter C.P., indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato.
Tale ultimo reato è, secondo il nostro codice penale, sussidiario rispetto al primo. Ciò significa che essi non possono concorrere (non possono essere entrambi addebitati all’imputato per il medesimo fatto). Anzi, il reato di cui all’art. 316 ter C.P. viene addebitato all’agente solo laddove la condotta di quest’ultimo non rientri altresì nella fattispecie -più grave- della truffa aggravata.
Ed infatti, si legge nel testo dell’art. 316 ter C.P. che “Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640 bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sè o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito…”. Ciò a significare che, laddove il fatto rientri nella più grave fattispecie di cui all’art. 640 bis C.P., tale reato non verrà contestato.
La ratio della norma risiede – in ottica repressiva – nella tutela della corretta e leale competizione al fine di ottenere danari pubblici, affinché tale procedura non venga viziata da soggetti che attestano il falso.
Il bene giuridico tutelato dalla norma è, evidentemente, il patrimonio pubblico.
Nello specifico, però, quando chi consegue l’erogazione senza averne diritto commette il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche e non, invece, quello più grave di truffa aggravata?
Occorre analizzare, per semplicità, la fattispecie delittuosa meno grave di cui all’art. 316 ter C.P., essendo anche -stante la modalità di richiesta di tali finanziamenti- quella maggiormente confacente alle possibili condotte dei soggetti richiedenti.
Per l’integrazione di tale reato è sufficiente che il richiedente presenti, unitamente alla richiesta, dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere ovvero ometta informazioni dovute e che da tale condotta derivi, come diretta conseguenza, il conseguimento indebito dell’erogazione del finanziamento.
Con riferimento al requisito oggettivo dell’induzione in errore, poi, occorre precisare che, secondo la ormai pacifica giurisprudenza di legittimità (cfr, ex multis, Cass. Pen. 10231/2006), per integrare la fattispecie di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316 ter C.P., sia sufficiente il semplice utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere ovvero l’omissione di informazioni dovute da cui derivi come conseguenza il conseguimento indebito del finanziamento al quale non si avrebbe diritto.
Non sarebbero necessario, pertanto, andare ad individuare gli specifici requisiti richiesti ai fini dell’integrazione del più grave reato di truffa aggravata e, in particolare, quegli artifici e raggiri che necessariamente devono sussistere per dirsi commessa la condotta delittuosa.
Tale fattispecie, peraltro, si è sostenuto sia integrata ogni qualvolta la documentazione non rispondente al vero abbia superato (o sia potenzialmente idonea a superare) gli specifici ed attenti controlli da parte dell’autorità: ciò significa, quindi, che se ci sono voluti controlli approfonditi per scoprire il reato, logica conseguenza ne è che vi siano senza dubbio stati quegli artifici e raggiri che connotano la truffa aggravata e confermano, quindi, l’esistenza di una qualche induzione in errore. In questo caso, l’imputazione corretta sarebbe quella di cui all’art. 640 bis C.P..
Parrebbe, quindi, che il reato di cui all’art. 316 ter C.P. sia integrato a prescindere sia dalla induzione in errore sia dal verificarsi di un danno patrimoniale, elementi questi che, invece, caratterizzano il più grave delitto di truffa aggravata.
Non sfugge però come entrambe le norme di cui abbiamo finora discusso facciano espresso riferimento ai concetti di “concessione” o “erogazione” dei finanziamenti da parte dello Stato; occorrerà dunque interrogarsi sulla differenza tra questi concetti e quello di garanzia del finanziamento, al fine di appurare se, ai fini dell’imputazione penale, essi rilevino ugualmente.
Un conto, infatti, è richiedere allo Stato l’erogazione di un finanziamento attraverso una condotta delittuosa. Altro è chiederne la garanzia, ma indirizzare la condotta delittuosa nei confronti di enti privati.
Occorre altresì evidenziare il fatto che, sebbene le garanzie previste dal “Decreto Liquidità” siano qualificate come “aiuto di Stato” ai sensi dell’art. 87 del Trattato dell’Unione Europea, secondo cui “sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”, l’intervento dello Stato (e dunque il danno per lo stesso conseguente alla condotta di reato) sarebbe successivo ed eventuale, attivandosi in caso di morosità da parte del beneficiario.
I dubbi interpretativi di cui sopra hanno probabilmente indotto i Procuratori della Repubblica presso i Tribunali di Milano e Napoli, Francesco Greco e Giovanni Melillo, a propendere per l’inapplicabilità delle fattispecie delittuose configurate negli artt. 316 ter e 640 bis C.P. alle condotte di percezione indebita di finanziamenti bancari garantiti dallo Stato ed a suggerire conseguentemente al Parlamento di procedere, in sede di conversione in legge del “Decreto Liquidità”, alla modifica delle suddette norme con l’introduzione del riferimento alla garanzia dello Stato al fianco di quello, già presente, relativo all’erogazione da parte dello Stato.
Autore Avv. Federico Caporale
Autrice Avv. Valentina Dicorato
A quasi un anno dalla famosa pronuncia sulla c.d. “cannabis light” (…e quattro giorni prima della “giornata mondiale della cannabis”), sono state depositate le motivazioni della sentenza con cui le Sezioni Unite della cassazione si sono pronunciate sulla rilevanza penale della coltivazione di piante stupefacenti (Cass. SS.UU. 19 dicembre 2019 n. 12348).
Tale sentenza compone l’ultimo tassello di un lungo cammino giurisprudenziale, segnato da plurimi pronunciamenti della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, volto a precisare il bene giuridico tutelato dalla fattispecie prevista dall’art. 73 DPR 309/90 (produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope) e a valutarne gli ambiti di estensione vis-a-vis del principio di offensività (astratta e concreta) del reato.
Più nello specifico, con la sentenza in oggetto, le Sezioni Unite della cassazione sono state chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale sorto sulla rilevanza penale della coltivazione di piante stupefacenti, in particolare laddove la coltivazione non abbia caratteristiche “agricole” ma sia bensì finalizzata all’autoconsumo, anche qualora le piante non siano ancora giunte a piena maturazione e sviluppo del principio attivo.
Occorre innanzitutto riassumere i vari indirizzi giurisprudenziali andati a stratificarsi nel tempo, richiamati dalle Sezioni Unite, dal momento che nel sistema italiano i principi enunciati dalla Corte di cassazione hanno una funzione di indirizzo giurisprudenziale, ma i giudici di merito – che sono soggetti solamente alla Legge – non sono tenuti ad aderirvi (come avviene ad esempio negli Stati Uniti con le pronunce della Corte Suprema, che hanno invece un’efficacia vincolante).
Un primo orientamento – maggiormente restrittivo – sottolineava come la coltivazione, sia essa “tecnico-agricola” o “domiciliare”, è attività di per sé illecita, poiché crea un rischio di diffusione nel mercato di sostanza stupefacente. Secondo tale orientamento, non rileverebbe la quantità di principio attivo espresso dalla pianta (anche per non avvenuta maturazione), dovendosi incardinare la rilevanza penale dell’attività di coltivazione nella sola capacità della pianta di giungere a maturazione e di produrre sostanza stupefacente.
Il secondo orientamento maturato sul punto – maggiormente ancorato sul parametro della “efficacia drogante della sostanza”, ossia della sua capacità a produrre effetti psicotropici sugli assuntori (elemento cardine anche della sopracitata sentenza sulla c.d. “cannabis light”) – richiedeva invece, ai fini della rilevanza penale della condotta, il concreto raggiungimento da parte della pianta di un grado di maturazione tale da esprimere efficacia drogante, unito alla capacità della coltivazione di produrre un quantitativo di sostanza stupefacente tale da favorire concretamente la circolazione della droga e l’alimentazione del mercato degli stupefacenti (ossia una coltivazione estesa e non “domestica”).
Discostandosi da una mera adesione acritica ad uno o l’altro orientamento, il ragionamento della Corte principia con il riconoscimento dell’autonomia concettuale dell’attività di coltivazione di sostanze stupefacenti, differenziata dalla semplice detenzione. La coltivazione sarebbe difatti riconducibile alla “attività di fabbricazione illecita di sostanze stupefacenti” a norma dell’art. 28 DPR 309/90. Si valorizzerebbe altresì il dato oggettivo che essa – a differenza della detenzione – è sempre considerata un reato a prescindere dall’uso esclusivamente personale dello stupefacente (l’art. 75 del DPR, sull’uso personale, non prevede infatti la coltivazione tra le condotte integranti l’illecito amministrativo).
Il ragionamento delle Sezioni Unite procede tuttavia distinguendo tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica”. Pur ribadendo che quest’ultima non è riconducibile alla detenzione – e la sua irrilevanza penale non può pertanto essere ancorata meramente al fine dell’autoconsumo – la Corte sottolinea come tale irrilevanza sia da ricercarsi nell’impossibilità di ricondurre una coltura di minima estensione nella definizione di coltivazione prevista dalla norma penale. Difatti, la coltivazione domestica intrapresa con il solo scopo di soddisfare esigenze personali presenta, per definizione, una capacità produttiva estremamente scarsa e di per sé incapace di impattare sulla circolazione della droga nel mercato.
Il discrimine tra la coltivazione penalmente irrilevante e quella illecita viene pertanto riconosciuto nella “prevedibilità” della coltivazione di produrre un basso quantitativo di sostanza stupefacente. A tal fine, le Sezioni Unite danno pertanto rilievo ad una serie di elementi correlati alle “tecniche” di coltivazione, che devono essere tutti compresenti nel caso concreto, quali:
La Corte sottolinea pertanto la distinzione tra la coltivazione “domestica”, caratterizzata da una produttività modesta, e quella “tecnico-agraria”, astrattamente idonea invece ad aumentare, anche in maniera considerevole, l’offerta del mercato delle sostanze stupefacenti.
La sentenza in esame interviene quindi a chiarire un altro punto di primaria importanza, confermando come la configurabilità del reato di cui all’art 73 dpr 309/90 prescinda dalla quantità di principio attivo ricavabile dalla pianta al momento dell’analisi.
È pacifico infatti che la valutazione del principio attivo di piante giunte al completamento del loro ciclo di maturazione possa essere indicativa dell’idoneità a produrre effetto drogante. Tuttavia, per quanto attiene a coltivazioni non ancora “mature”, la Corte ritiene che il potersi raffigurare il positivo sviluppo della stessa sia elemento sufficiente a caratterizzarne la rilevanza penale. Ad esclusione dell’illiceità verrebbero pertanto valorizzati alcuni dati impattanti sulla “prevedibilità” di produzione di sostanza stupefacente, quali in primis la conformità delle piante coltivate al tipo botanico vietato o l’uso di modalità di coltivazione inadeguate che non possano portare le piante ad una corretta maturazione con annesso sviluppo di principio attivo drogante.
In conclusione la Corte precisa che laddove la coltivazione domestica volta all’autoconsumo non integri il reato di cui all’art. 73 del DPR 309/90, non potrà trovare applicazione neanche l’illecito amministrativo previsto dall’art. 75 del decreto, poiché tale norma (che punisce l’uso personale con le sanzioni amministrative della sospensione o del divieto di conseguimento, per un periodo ricompreso tra 1 mese e 1 anno, della patente di guida e/o della licenza di porto d’armi e/o del passaporto e/o del permesso di soggiorno per motivi di turismo) non si riferisce in nessun caso alla coltivazione.
Piuttosto, incorrerà in tali sanzioni amministrative il coltivatore che detenga sostanza coltivata e già contenente principi attivi al fine del suo consumo.
Autore Avv. Federico Caporale
In data 25.3.2020 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, con entrata in vigore il successivo 26 marzo, il Decreto Legge n. 19, finalizzato a mettere un po’ d’ordine nella mole di provvedimenti emergenziali emanati nelle ultime settimane ed altresì nei rapporti Stato – Enti Locali per la gestione dell’emergenza Covid-19.
Per quanto concerne gli aspetti punitivi, il provvedimento di cui sopra opera una depenalizzazione di fatto della condotta posta in essere da chi non ottempera ad una qualsiasi delle varie misure emergenziali adottate (a titolo esemplificativo le limitazioni alla circolazione delle persone e le chiusure delle attività commerciali e/o produttive), sostituendo alle sanzioni penali previste dall’art. 650 – Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità C.P. quella amministrativa del pagamento di una somma da € 400,00 ad € 3.000,00 (aumentabile fino ad un terzo in caso di violazione commessa mediante l’utilizzo di un veicolo o raddoppiata in caso di violazioni reiterate).
L’art. 650 C.P. non viene pertanto depenalizzato, ma formalmente disapplicato in tutti i casi in cui l’inosservanza ha ad oggetto provvedimenti emanati in funzione della nota emergenza sanitaria.
Non solo. Per mezzo di una norma intertemporale, la nuova sanzione amministrativa viene applicata “anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto”, con un robusto sconto della metà.
La maggior parte dei procedimenti penali sorti a seguito delle contestazioni effettuate fino al 25 marzo incluso non avranno pertanto seguito, scaturendo in una trasmissione degli atti da parte delle Procure della Repubblica alle Autorità alle quali viene attribuito il potere sanzionatorio (nella maggior parte dei casi le Prefetture).
A tal fine pare opportuno sottolineare come beneficino degli effetti della depenalizzazione contenuta nel Decreto Legge coloro i quali abbiano autocertificato (o autocertifichino in futuro) ragioni di spostamento veritiere, ma non giustificate ai sensi dei provvedimenti in vigore all’epoca del controllo, e non coloro i quali abbiano reso (o rendano) dichiarazioni mendaci ad un Pubblico Ufficiale, autocertificando pertanto false ragioni (fattispecie ancora punibile ai sensi dell’art. 495 C.P.).
Continua a costituire reato, ovviamente, anche la condotta di chi, risultato positivo al virus SARS-CoV-2 e dunque sottoposto alla misura della quarantena, si allontani dalla propria abitazione.
E’ evidente come, con l’atto normativo in esame, si sia voluto sostituire l’effetto deterrente di un procedimento penale con quello (in Italia forse maggiormente incisivo) connesso all’irrogazione di una sanzione pecuniaria o di quella accessoria della chiusura della propria attività (prevista per un periodo da 5 a 30 giorni in caso di violazione delle misure concernenti la chiusura delle attività stesse), sgravando in questo modo le Procure italiane da decine di migliaia di potenziali nuovi procedimenti.
E’ però evidente anche il fatto che l’effetto deterrente di cui sopra – fondamentale in un momento di emergenza come quello che stiamo vivendo – sia maggiormente efficace nei confronti dei soggetti meno abbienti, soprattutto nel momento in cui si permette il pagamento in misura ridotta previsto dall’art. 202 del Codice della Strada, secondo cui “il trasgressore è ammesso a pagare, entro sessanta giorni dalla contestazione o dalla notificazione, una somma pari al minimo fissato dalle singole norme. Tale somma è ridotta del 30 per cento se il pagamento è effettuato entro cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione”.
In sede di conversione del Decreto Legge, che dovrà avvenire entro 60 giorni, si potrà forse contemperare meglio l’esigenza di “fare cassa” con quella di inibire il più possibile comportamenti che mettano a rischio la salute pubblica, cercando nel contempo di non sanzionare in maniera proporzionalmente più gravosa quei soggetti che hanno meno possibilità di ammortizzare gli effetti negativi delle misure emergenziali adottate.
Autore Avv. Federico Caporale
Il 1° gennaio 2020 è entrata in vigore la riforma della disciplina della prescrizione del reato contenuta nella Legge n. 3 del 9 gennaio 2019, la c.d. “spazzacorrotti”.
Al fine di comprendere la portata della riforma in oggetto, nonché al fine di valutare le molteplici critiche che sono state sollevate in merito dagli addetti ai lavori del sistema giustizia e dai vari commentatori, è necessario fare un breve excursus sulla natura dell’Istituto giuridico e sugli ultimi interventi che l’hanno interessato.
Innanzitutto, che cos’è la prescrizione? La prescrizione è una causa di estinzione del reato che si verifica quando non si riesce ad addivenire ad una sentenza irrevocabile – quindi esauriti tutti i gradi di giudizio – di condanna dell’imputato entro un termine temporale individuato dalla legge.
Quando ciò avviene, l’autore del reato va pertanto esente dalle conseguenze pregiudizievoli connesse alla condanna penale, ad eccezione dell’obbligo di risarcire il danno cagionato alla persona offesa del reato, nel caso in cui la prescrizione intervenga successivamente ad una sentenza di condanna in primo grado.
Le principali ragioni sottostanti all’istituto sono state individuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel fatto che il trascorrere del tempo affievolisce l’esigenza punitiva dello Stato e soprattutto incide sul fine rieducativo della pena eventualmente irrogata al termine del processo, che a distanza di molti anni va a colpire un individuo profondamente diverso da quello che all’epoca aveva commesso il reato.
Per quanto riguarda il funzionamento dell’istituto – e semplificando il più possibile – il tempo necessario a prescrivere un determinato reato corrisponde al massimo della pena prevista dalla Legge per quella tipologia di reato; è dunque evidente che a reati più gravi corrispondono termini di prescrizione più lunghi.
E’ poi previsto un termine prescrizionale minimo, che dunque prescinde dall’entità della pena, di sei anni per i delitti e di quattro anni per le contravvenzioni, nonché l’imprescrittibilità di alcuni gravi reati.
Nel corso di un procedimento penale vi sono poi alcuni eventi che sospendono il tempo necessario a prescrivere (che inizia nuovamente a decorrere una volta terminata la causa sospensiva) o che interrompono detto tempo (che al termine dell’evento interruttivo riparte da capo).
A prescindere dal numero di eventi sospensivi ed interruttivi, il tempo necessario a prescrivere non può essere – salvo rari casi – comunque superiore al tempo “base” aumentato di un quarto.
La regola appena esposta, unitamente all’altissima probabilità di incorrere nell’arco di un procedimento penale in eventi sospensivi o interruttivi della prescrizione, fa sì che il termine minimo prescrizionale, per i delitti meno gravi, sia di sette anni e mezzo (sei anni di “minimo” più un anno e mezzo di aumento massimo).
In questo quadro era già intervenuta nel 2017 la c.d. “riforma Orlando”, che aveva allungato i termini prescrizionali (solamente però nei casi di sentenze di condanna) di tre anni, introducendo due periodi di sospensione del corso della prescrizione, di un anno e mezzo ciascuno, tra il primo ed il secondo grado e tra il secondo grado e la Cassazione.
La nuova riforma ha abrogato quella del 2017 prima che gli effetti della stessa potessero essere adeguatamente monitorati ed analizzati (la riforma Orlando si applica ai procedimenti iniziati nella seconda metà del 2017) ed ha formalmente introdotto una nuova ipotesi di sospensione del termine prescrizionale, che costituisce in sostanza un’eliminazione dell’istituto dopo il primo grado di giudizio.
Il nuovo art. 159 del Codice Penale prevede infatti che “il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”.
Essendo il termine finale della “sospensione” collocato in corrispondenza dell’esecutività della sentenza, ossia successivamente all’irrevocabilità della stessa, la decorrenza del termine prescrizionale non riprenderà mai dopo la fine del giudizio di primo grado. All’atto pratico, quindi, il termine prescrizionale calcolato con le vecchie regole (pena edittale aumentata di un quarto) potrà essere utilizzato interamente per la fase delle indagini preliminari e per il giudizio di primo grado, non essendoci invece più limiti temporali per lo svolgimento dei successivi gradi di giudizio.
Quanto sopra vuol dire che la persona sottoposta ad un procedimento penale, la quale – è doveroso ricordarlo – si presume innocente fino a prova contraria, potrà astrattamente subire le conseguenze pregiudizievoli a questo connesse (ivi comprese quelle patrimoniali come il sequestro dei propri beni) per un tempo indefinito e, in caso di condanna, scontare la pena irrogata a distanza di 20, 30 o 40 anni dalla commissione del fatto.
Non solo.
Una delle maggiori criticità che sono state evidenziate in merito alla riforma è il fatto che la nuova ipotesi di “sospensione” interviene a seguito di qualsiasi sentenza di primo grado, di condanna ma anche di assoluzione.
Questo significa che anche una persona andata assolta in primo grado dall’ipotesi accusatoria contestatagli potrà, in caso di appello proposto dal Pubblico Ministero, continuare a subire, sempre per un tempo indefinito, le conseguenze pregiudizievoli del processo penale. Occorre poi considerare che questo allungamento, potenzialmente infinito, dei tempi processuali potrà andare altresì a discapito delle persone offese, che dovranno attendere tempistiche più lunghe per soddisfare le proprie pretese risarcitorie.
In conclusione si concorda con chi ritiene che in assenza di un potenziamento delle risorse, soprattutto umane, assegnate all’amministrazione della Giustizia, la riforma appena entrata in vigore non apporterà alcun beneficio al sistema ma solamente un notevole pregiudizio a danno di coloro i quali si troveranno, loro malgrado, ad affrontare, in qualsiasi veste, il processo penale.
Autore Avv. Federico Caporale